viernes, abril 26, 2013

El lamento de Ariadna (XVIII)

Ilustración de Giacomo Franco para el libro VIII de la traducción de Anguillara en la edición de 1584
En 1554 aparecía en París la traducción al italiano en octavas de los tres primeros libros de Las Metamorfosis de Ovidio a cargo del poeta Giovanni Andrea dell´Anguillara, dedicada al rey Enrique II: De le Metamorfosi d'Ovidio libri III di Giovanni Andrea dell'Anguillara. Anguillara, nacido en Sutri (1517), se había educado en Roma, donde había estudiado jurisprudencia, aunque su vocación literaria le movió pronto a probar fortuna en el campo de las letras.  El fracaso de su comedia L´Anfitrione (1548) le llevó a abandonar la ciudad, incorporándose al séquito del cardenal Farnese, con quien viajará a Parma. Poco después marchará a Venecia, donde trabajó en la mencionada traducción, y luego a París, donde esperaba alcanzar la gracia del rey Enrique II de Francia y convertirse en poeta cortesano. Las críticas llegadas desde Italia a propósito de la escasa fidelidad de la traducción al texto latino y la inesperada muerte del rey retrasaron la tarea del poeta, quien, no obstante, desarrollará en París su etapa de mayor actividad. De ella son fruto L'Orlando Furioso dell'Ariosto con gli argomenti di Gio. Andrea dell'Anguillara (Venecia 1563, 1566, 1568) y  Nuovi argomenti fatti da M. Giovan. Andrea dell'Anguillara sopra Orlando Furioso di M. Lodovico Ariosto (Florencia, 1570), amén del resto de la versión del poema ovidiano, que esperaba ver impresa en Lyon en 1560. En París se ganó la amistad de Catalina de Médici, esposa de Enrique, a la que dedicó unas Rime, sin embargo decidió  abandonar la ciudad ante el clima de intolerancia religiosa que se vivía en ella. Tras intentar la publicación de su manuscrito ovidiano en la corte de Cosme I de Médici, en Florencia, ésta tendrá lugar definitivamente en Venecia, en la imprenta de Giovanni Griffio, en 1561, Le Metamorfosi di Ovidio di Gio. Andrea dell'Anguillaraahora con dedicatoria al rey Carlos IX de Francia.

Dos años después la obra se completaba con unos comentarios de Giuseppe Orologi, Le Metamorfosi di Ovidio, ridotte da Giovanni Andrea dell'Anguillara in ottava rima, al cristianissimo re di Francia Enrico II, di nuovo dal proprio autore rivedute e corrette, con le annotazioni di messer Gioseppe Orologgi (Venecia, Francesco de Franceschi, 1563). 

La traducción de Anguillara se caracteriza por la reelaboración del original latino al que añade abundantes digresiones, fruto de su gran imaginación y de sus abundantes lecturas, que vienen a complicar el ya de por sí elaborado texto ovidiano. En el caso que nos ocupa, los cuatro versos de Ovidio dedicados al abandono de Ariadna por parte de Teseo (met. 8, 174-177),

Protinus Aegides rapta Minoide Diam
Vela dedit comitemque suam crudelis in illo
Litore destituit. Desertae et multa querenti
Amplexus et opem Liber tulit, utque perenni…,

se convierten en las 41 estrofas que a continuación reproducimos. En ellas es muy notable la influencia del texto de las Heroidas (epist. X, Ariadna Theseo), que ya editamos y tradujimos en una entrada anterior. Nótese, por ejemplo, en las estrofas dedicadas al despertar de Ariadna: 105, cf. her. 10,7; 106, cf. her. 10, 11-13; 107, cf. her. 10, 14-16; 108, cf. her.10, 17-24; 109, cf. her. 25-27; 110, cf. her. 10, 28- 32, etc. Podríamos decir, sin temor a equivocarnos, que Anguillara incorpora la traducción de los versos de la epístola al pasaje de Las Metamorfosis.

Primera página del libro octavo en la edición de 1584
101
Come vede Arianna il giorno morto,
Con la sorella sua, che dispost’haue,
Lascia la terra, e’l padre, e corre al porto,
E monta ascosamente in su la naue.
Subito, ch’esser vede il Greco accorto
Di cosi rica merce il legno graue,
Snoda le vele al vento, e fugge via,
E prende terra à l’isola di Dia.

102
Fà tosto un padiglion tender su’l lido,
Che fin ch’apporti il giorno il nouo lume,
Con l’incauta fanciulla il Greco infido
Si vuol goder l’insidiose piume.
Ella, che’l suo amor crede un vero nido
D’ogni gentil, d’ogni real costume,
Al suo finto parlar prestando fede,
À l’empie braccia sue si donna, e crede.

103
Teseo, che tutto hauea riuolto il core,
À l’altra assai più giouane sorella,
La qual quel crudo, e traditor d’Amore
Fece parere à gli occhi suoi più bella,
Tolto c’hebbe à la vergine quel fiore,
Che la fè fin allhor nomar donzella,
E nel sonno sepolta esser la vide,
Lasciò con muto piè le tende infide.

104
Tacitamente al legno si trasporta,
E fa spiegar l’ insidioso lino.
Il vento gonfia à lui propitio, e porta
Ver la prudente Athene il crudo pino.
Piange l’altra donzella, ei la conforta,
E non si scopre il raggio matutino,
Che la dispone à tutte le sue voglie,
E secondo il desio la fa sua moglie.

105
Già la stellata Dea, che’l giorno asconde,
Splender vedea le sue tenebre alquanto:
E già l’Aurora, e le sue chiome bionde
À l’herbe, à fior fean ruggiadoso il manto:
E velando gli augei fra fronde, e fronde
Facean del nouo albor festa co’l canto:
Ogni mortal dal placido soggiorno,
Chiamato à le fatiche era del giorno:

106
Quando Arianna misera fu sciolta
Dal sonno, che lo spirto hauea legato,
Nè del tutto anchor desta il viso volta,
Doue crede trouar l’amante ingrato:
Stende l’accesa man più d’una volta,
Poi cerca in vano anchor da l’altro lato.
In van per tutto i piè moue, e le braccia,
Tal, che’l timor dal tutto il sonno scaccia.

107
S’alza, s’ammanta, e con furor s’auenta
Dal fatto poco pria vedouo letto,
E’l crine, e’l panno inconta il freno allenta
Ad ogni mesto, e doloroso affetto;
E va spinta dal duol, che la tormenta,
Stracciando il crine, e percotendo il petto,
E dando al ciel mille angosciose strida,
Doue lasciato hauea la naue infida.

108
Guarda s’altro veder, che’l lito puote,
Nè puote altro veder, che’l lito istesso.
L’alte sue strida, e le dolenti note
L’amato nome in van chiamano spesso.
Quel suon nel cavo sasso entra, e percote,
E’l sasso per pietate il chiama anch’esso.
Ella chiama Teseo, Teseo la pietra,
Nè quella, ò questa la risposta impetra.

109
Mentre corre per tutto, e’l suo cordoglio
Sfoga con alte strida, alzarsi scorge
Un’aspro, incolto, e ruinoso scoglio,
Ne la cui cima arbusto alcun non sorge,
Percosso dal marin continuo orgoglio,
E curuo, e molto in fuor su’l mar si porge,
Sù per l’erto camin montar si sforza,
E l’animo, ch’ell’ha, le dà la forza.

110
Quiui ella vide, ò pur veder le parue
(Che la luce anchor dubbia era del cielo),
Per gire, ù già nel ciel Calisto apparue,
Un legno hauer fidato al vento il velo.
Tosto il viuo color dal volto sparue,
E cadde in terra più fredda, che’l gielo.
L’atterra, e d’ogni senso il duol la priua,
E poi lo stesso duol la punge, e auuiua.

111
Si leua, e con questa ira, e questo sdegno
Scopre il dolor che strugge il cor profondo;
Doue fuggi crudel? Guarda, ché’l legno
Non ha il numero suo, non ha il suo pondo.
Non son si graui i membri, ch’io sostegno,
Che debbian l’arbor tuo mandare in fondo.
Se l’alma mia crudel se ne vien teco,
Perche non fai, che ’l suo mortal sia seco?

112
Non dei soffrir, che vaga del suo obbietto
T’habbia l’alma à seguir fuor del suo nido.
Cosi del crudo suo noioso affetto
Fà risonar d’intorno il mare, e’l lido.
E percote le man, percote il petto,
E co’l gesto accompagna il debil grido.
Porta via intanto l’Austro empio, e veloce
L’Attiche vele, e la Cretense voce.

113
Visto poi, che la voce afflitta, e mesta
Di passar tanto in là forza non haue,
Accenna con la mano, e con la vesta,
Ch’essi han lasciato in terra un de la naue.
La naue se nè và felice, e presta,
Nè vuol per cenni altrui farsi più graue:
E, mentre ella più accenna, e si querela,
Vede in tutto sparir l’ingrata vela.

114
Gli occhi per tutto il mar raggira, e volta,
Stride, e si fiede, e’l crin rompe, e disface.
Corre di quà, di là, chiama, et ascolta,
Hor alza il grido, hor dà l’orecchie, e tace.
Come maga suol far, quand’ebbra, e stolta,
Lo Dio, c’ha in sen, vaticinar la face,
Che sparso il crin fra varii cerchi, e segni
S’aggira, e grida, e fa mill’atti indegni.

115
Talhor guardando il mar su’l sasso siede,
Con lo spirto si stupido, e si lasso,
E cosi ferma stà dal capo al piede,
Che non par men di pietra ella, che’l sasso.
Stà cosi alquanto; e poi, che si rauuede,
Ver l’albergo notturno affretta il passo,
E crede anchor trovarlo, e si conforta,
Nè la speranza in lei del tutto è morta.

116
Ma, quando poi la suenturata porge
Dentro à le tende in ogni parte il lume,
E fra i duo lini anchor tepidi scorge,
Ch’iui non gode il suo Teseo le piume,
In lei l’ira, e’l dolor maggior risorge,
E d’ogni luce fa di nouo un fiume,
Doue al fin si posar l’ingrate membra,
Si posa, e’l suo dolor cosi rimembra:

117
O falso albergo de’riposi miei,
Quanto il tuo honor, quanto il mio stato offendi:
O quanto ingiusto, o quanto infido sei,
O quanto male al tuo debito intendi.
Hiersera à la tua fe due ne credei,
Hor, perche nel mattin due non ne rendi?
Tu manchi troppo à la ragione, e al vero,
Se’l deposito mio non rendi intero.

118
Doue hai posto, infedel, che più non veggio,
Del deposito mio la miglior parte?
Doue, oime, per ragion ricorrer deggio
In questa inculta, e solitaria parte?
Quest’isola non hà pretorio seggio,
Anzi mancando di cultura, e d’arte,
D’ogni commercio human la credo ignuda,
E albergo d’ogni fera horrenda, e cruda.

119
Qui non son’naui, e son cinta dal mare,
Nè qui spero rimedio à tanta doglia:
Ma ponian, ch’un nocchier vegga arriuare,
Che per pietate à l’isola mi toglia,
In qual’arena mi farò portare?
Qual terra trouerò, che mi raccoglia?
Debbo tornare al monte patrio d’Ida,
Doue al fratel fui cruda, al padre infida?

120
Quand’io, Teseo, co’l filo, e co’l consiglio
Tolsi à la patria tua si dura legge,
Giurasti per lo tuo mortal periglio
Su’l libro pio, che su l’altar si legge,
Che mentre non prendea dal corpo essiglio
Lo spirto, che’l mortal ne guida, e regge,
Sempre io la tua sarei vera consorte,
Nè à te mi potria torre altro, che morte.

121
Ma non son però tua, ben ch’ambedui
Viuiam, se si puo dir però, che viua
Donna sepolta dal periurio altrui,
E d’ogni human commercio in tutto priua.
Deh, perch’io anchor co’l mio fratel non fui
Da te donata à la tartarea riua?
Che s’havessi ancho à me la vita tolta,
Saria la fede tua rimasa sciolta.

122
Nè solo innanzi à gli occhi m’appresento
La morte, c’hò a patir, che fia solo una:
Ma quanto stratio, e mal, quanto tormento
Può dar la crudeltate, e la fortuna.
Co’l pensier veggio colma di spauento
Mille forme di morte, empia ciascuna.
E’l tardar suo di mal mi fa più copia,
Che non farà dapoi la morte propia.

123
Lupi affamati, e rei veder mi pare
Uscir di folte macchie, ouer sotterra,
Orsi, Tigri, e Leon, se pur cibare
Quest’isola ne suol per farmi guerra.
Dicono anchor, che suol tal volta il mare
Mandar le Foche, e le Balene in terra:
E al fin di questi, e ciascun’altro male
Un sol n’ho da patir, ma non sò quale.

124
Ma, s’io discorro ben, non è la morte
La pena, ch’in me può cader più rea.
Quanto saria peggior l’empia mia sorte,
Se capitasse qui fusta, ò galea,
E fosse serua di si vil cohorte
Chi comandava à l’isola Dittea,
Del Re saggio Ditteo la vera prole,
Gli avi eccelsi di cui son Giove, e’l Sole.

125
Che peggio hauer potria, se fosse serua
De gl’infami ladron de la marina,
Colei, che ne la terra di Minerva
Insieme esser douea moglie, e Reina?
Venga prima ogni fera empia, e proterua,
E mi condanni à l’ultima ruina,
E faccia il dente suo contento, e satio
Del miser corpo mio con ogni stratio.

126
Quest’aere, questa terra, e questi lidi
Mi minaccian crudeli ogni empio danno.
Hor su poniam, che questa terra annidi
Quegli animai, che più de gli altri sanno,
Come vuoi più, che d’huomini io mi fidi,
Poi che nasce da un’ huom si crudo inganno?
Ben cieco è l’occhio mio, s’anchor non vede
Quanto può donna ad huom prestar di fede.

127
Volesse Dio, ch’Androgeo mio fratello
Mai non hauesse il tuo regno veduto,
Che non l’haurebbe il Greco empio coltello
In si tenera età donato à Pluto:
Nè veduto io t’haurei nel patrio hostello,
Per satisfare al funeral tributo.
Nè men per torti à cosi gran periglio,
T’haurei dato il mio fil, ne’l mio consiglio.

128
O cor pien di perfidia, o viso finto,
O infamia singular de’tempi nostri,
S’io ti tolsi à l’error del laberinto,
Ond’è, ch’à quinci uscir tu à me non mostri?
S’al toro te tols’io, che t’hauria vinto,
Come preda me fai di mille mostri?
S’ho il cor mostrato à te fedele, e puro,
Perche sei stato à me falso, e pergiuro?

129
O traditore, e d’ogni nome indegno,
Che suol qua giù fra noi portare honore,
Dunque, perch’io ti diè l’arme, e l’ingegno,
Che ti trasser del carcer vincitore;
Dunque, perch’io t’hò liberato il regno
Da tributo si rio, da tanto horrore:
Dunque per darti in tanta impresa aita,
Mi dai la morte, ou’io ti diei la vita?

130
Ma ben veggo io, che mi lamento à torto,
Che senza il modo mio, senza il mio lino,
Hauresti il bue men forte, e meno accorto
Condotto al fin del suo mortal camino:
E come egli giamai t’haurebbe morto,
C’hai il cor di ferro, e’l petto adamantino?
E tu, sendo si falso, e astuto Greco
Saresti uscito anchor d’error più cieco.

131
Sonno crudel, che nel notturno oblio
Tenesti l’alma mia sepolta tanto,
Che non potei sentir lo sposo mio,
Che per fuggir si mi leuò da canto.
O venti troppo pronti al suo desio,
O troppo officiosi al nostro pianto,
O troppo ingiusti, o troppo infami venti,
Che deste aiuto à tanti tradimenti.

132
O man cruda, e fallace, che’l consorte
Mi promettesti, e la miglior mercede;
E poi me co’l fratel donasti à morte,
Con le percosse lui, me con la fede.
Oime, che congiurar ne la mia sorte
Tre per mandarmi à la tartarea sede,
E contra una fanciulla quel, che ponno,
Han fatto tre, la fede, il vento, e’l sonno.

133
Oime, morrommi in queste arene esterne,
E pria, che venga la mia luce oscura,
Io non vedrò le lagrime materne,
Nè la materna sua pietate, e cura.
E de’strani animai tane, e cauerne
Saran de l’ossa mie la sepoltura.
Dunque crudo Teseo questo deserto
Vuoi far degno sepolcro à tanto merto?

134
Tu te n’andrai superbo al patrio lido,
Portando in man la vincitrice palma,
Doue ti daran gratie, honore, e grido,
C’habbi leuato lor si graue salma.
Tu conterai, com’entro al dubbio nido
Al miser fratel mio togliesti l’alma,
E come poi per vie dubbiose, e torte
Sapesti vincitor trouar le porte.

135
Quiui haurai da la patria honore, e gloria,
Sendo per te da tanto obligo sciolta:
Et io, che fui cagion de la vittoria,
Me ne starò qui morta, e non sepolta.
Rauuiua almeno anchor la mia memoria,
E dì, ch’io mi fidai semplice, e stolta:
E, poi che desti al tuo desire effetto,
Mi lasciasti in quest’isola nel letto.

136
Conta fra tanti tuoi trionfi, e fregi,
Quest’altro tuo dignissimo trofeo;
La stirpe iniqua tua non vien da’Regi,
Tu non fosti giamai figliuol d’Egeo.
Giamai non fu, come ti vanti, e pregi,
Tua madre de la stirpe di Pitteo.
Tu non fosti, crudel, mai figlio d’Etra,
Ma ben d’un’aspra in mar dannosa pietra.

137
Lascia di nouo il letto, e su lo scoglio
Monta, e si fiede, e stride, e chiama, e guarda,
Et hor con prego dolce, hor con orgoglio
Chiama la fede sua falsa, e bugiarda.
Echo, c’haue pietà del suo cordoglio,
Dice il medesmo anch’ella, ma più tarda.
E, mentre, ch’ella stride, e si percote,
Risponde à le percosse, et à le note.

138
Deh fossi sol da me tanto diuiso,
(Dicea) che da la poppa de la naue
Potessi il pianto udir, vedere il viso,
Quanta doglia appresenta; e quanto paue,
Che muteresti il tuo crudele auiso,
E di tornar non ti parrebbe graue.
Ma poi che l’occhio tuo non è presente,
Guardami almen con l’occhio della mente.

139
Riguarda co’l pensier l’amaro pianto,
Che stracciando i capei da gli occhi verso,
Riguarda co’l pensier l’inculto manto,
Come da pioggia esser dal lutto asperso:
Discorri, quanto io t’ho chiamato, e quanto
Ti chiamo ancor con vario, e flebil verso;
E quanto ancor da lamentarmi auanza,
Poi c’hò perduto insino à la speranza.

140
Deh, torna homai Teseo prima, ch’io cada
Sola in tanta miseria in un deserto.
E, poi, che’l merto mio poco t’aggrada,
Io non ti prego più per lo mio merto:
Ti prego per honor della tua spada,
Che da te tanto mal non sia sofferto;
Che, s’io non ti saluai, non fei di sorte,
Ch’io ne douessi hauer però la morte.

141
Deh, se alcuna pietate il cor ti punge,
Riuolta à me la desiata prora:
E, se ben sei da questa isola lunge,
Non dubitar di non venire ad hora.
E come la tua naue al lito giunge,
Se troui l’alma del suo albergo fuora,
Prendi almen l’ossa, e, come si conuiene,
Doni à la moglie tua sepolcro Athene.

142
Mentre cosi la suenturata piange,
E in varij luoghi si trasporta, e duole,
E del dolor, che la tormenta, et ange,
Fan fede le percosse, e le parole;
Lo Dio, che già fu vincitor del Gange,
Come la buona sua fortuna vuole,
Vede passando lei, che si querela,
E fa voltare à quel camin la vela.

Ilustración para la edición de Zaltieri (1607)

Tras la aparición de la traducción de Las Metamorfosis, Anguillara se ocupará principalmente de la traducción de La Eneida de Virgilio, igualmente en octavas, cuyo primer libro se publicó en Padua (1564), y el segundo, en Roma, adonde se trasladó en 1566 para completar su tarea al amparo del cardenal Madruzzo. Compuso también la tragedia Edipo, representada sin éxito, y algunos poemas de circunstancias de tono laudatorio: Canzone ad Alfonso II d'Este (1562), A Massimiliano II imperatore dei Romani (1564), Alla Serenissima Principessa di Fiorenza (1566), una canción dedicada al papa Pío V, un poema a la victoria cristiana en la batalla de Lepanto. Anguillara falleció probablemente en Sutri en 1572.

La fortuna literaria de este poeta se debió principalmente a su traducción de Ovidio, que gozó de gran éxito en su tiempo, como testimonia el gran número de reediciones que se hicieron de ella: 1572; 1575, con las anotaciones de Orologgi y comentarios de Francesco Turchi;  1584 (Venecia, Bernardo Giunti), Le Metamorfosi di Ovidio Ridotte da Gio. Dell´Anguillara in ottava rima: Con le Annotationi di M. Gioseppe Horologgi et gli Argomenti, et Postille di M, Francesco Turchi. In questa nuova Impressione Di Vagle figure adornate, considerada la mejor edición de la obra, y reimpresa en 1592. En el siglo XVII destacan las ediciones venecianas de M. Zaltieri (1607, 1613, 1614) y Z. Conzatti (1669 y 1677). Tras la edición veneciana de 1799 (Parnaso de' poeti classici d'ogni nazione, XXVIII), se realizaron otras destinadas a hacer llegar la obra a un público más amplio.

La edición e 1584 contó con una serie de 15 grabados en cobre realizados ex profeso por  el dibujante, grabador y editor Giacomo Franco (1550- Venecia, 1620). Cada uno de ellos encabezaba un libro y contenía en la plancha varias escenas correspondientes a las historias referidas en el mismo. En el del libro octavo encontramos en primer plano a Ariadna que, abandonada en Naxos, recibe la visita de Baco. Detrás, y con la identificación correspondiente a través de pequeñas inscripciones, se representan los mitos de Meleagro, Filemón y Baucis, Dédalo y Talo, Las Equínades, y Minos, Niso y Escila. El grabado aparece enmarcado con máscaras, roleos y putti entre los cuales leemos el número del libro al que pertenece (parte superior) y la firma del autor (ángulos inferiores). Giacomo Franco, formado en la escuela de Agostino Carracci, da a sus dibujos una impronta manierista, preocupándose particularmente del dibujo del desnudo, lo que los distancia una enormidad del ideal nórdico que representaban las estampas de Salomon y Solis. El grabado de Franco fue copiado para la edición veneciana de Zaltieri (1607) pero con una notable alteración, la incorporación del resumen del libro a la misma plancha, amén de la considerable pérdida de calidad en el dibujo.


- Fátima Díez Platas, Juan M. Monterroso Montero, "Mitología para poderosos: las Metamorfosis de Ovidio. Tres ediciones ilustradas del siglo XVI en la Biblioteca Xeral de Santiago", SEMATA 10 (1998), pp. 451-472, Universidad de Santiago.
- Pilar Díez del Corral Corredoira, "Al final del laberinto. Ariadna en los Ovidios ilustrados del s. XVI", SEMATA 14 (2002), pp. 277-289, Universidad de Santiago.
Ovid Illustrated: The Reception of Ovid's Metamorphoses in Image and Text. Site constructed by Daniel Kinney with Elizabeth Styronand, http://ovid.lib.virginia.edu
Marta Paz Fernández, "Las imágenes de Las metamorfosis en las ediciones impresas de los siglos XV y XVI", http://www.usc.es/ovidios/doc/ImgMetamorfosis.pdf
http://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-andrea-dell-anguillara_(Dizionario-Biografico)/#
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